
Il resto, non c’entra un cazzo con la professione e la professionalità. C’entra con chi hai a che fare dalla tua parte. Ecco allora che capita di scambiare quel po’ di voglia di imparare e di ambizione che hai con il posto fisso. E ci sta. Che impari a proteggerti i nervi, specie dalle intrusioni sulla tua visione del lavoro. Che ti adatti, riuscendo a fare cose che non sarebbero nelle tue corde e collaborare con gente con cui non hai niente, neppure questo lavoro, da spartire. Che comunque pesi il beneficio di avere malattia, ferie e pensione contro il fatto d’essere pagato la metà. Che dinanzi al verticale peggioramento dell'ambiente di lavoro, riesci a stringere i denti e a resistere, perché in fondo il tuo lavoro, anche se poco, è importante per gli altri, tutto ci sta.
Finché, per avventura, non ti chiedono di fare il lavoro di uno junior account executive (il ventenne stagista che scrive i memo per le riunioni, quando non gli fanno fare le fotocopie, tanto per intenderci), ossia riempire di testo le slide di power point della presentazione commerciale di un piano di comunicazione pensato da un cuoco messo a dirigere un’azienda di comunicazione consorella della tua. In mezza giornata, chiaro. E non perché sei capace di pensare in modo diverso, dunque puoi (per ipotesi) integrare quel piano con le tue proposte, no. Il piano è quello. Solo: gli altri non hanno tempo. E poi, sai, tu scrivi bene.
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