mercoledì 28 ottobre 2009

DONNE (ma niente dududu) / parte 8


Monnezza è mezza bellezza

Non è solo televisione spazzatura. Non è solo questione di bellezza-merce: non sono così ingenuo da pensare che la bellezza (naturale o patinata o siliconata, triste o allegra o bronciodipendente) debba scomparire dalle copertine o dalle pubblicità o dagli ancheggianti e poco vestiti corpi da corpo di ballo. Che la bellezza del corpo umano, e quindi per ovvi motivi del corpo femminile, serva per vendere, è un fatto e non vedo perché dovrebbe equivalere al servaggio. Tuttavia, la soglia del cinismo dovrebbe arrestarsi qui: la mercificazione del nudo, dell’identità e del sentimento ha una profonda influenza sul nostro immaginario.
Inciso: se per pubblicizzare un cosmetico posso mostrare un corpo nudo e così alludere alla seduzione, siamo nel campo della semantica e della promessa marketing – se ne può discutere, insomma. Se ogni quattro minuti del palinsesto ho uno stacchetto dimenaculo, ogni tre pagine labbrone tumide, una copertina su due apre con la gnocca, beh, abbiamo un problema. Non tutto può essere seducente. Ed essere educati a pane e sesso patinato, prima o poi, genererà pure qualche problema con la realtà. Fine dell’inciso.
Diamo troppo spesso per acquisito, se non per scontato, che la televisione sia un solo un mezzo, il più potente in Italia, ma pur sempre un medium. Non è proprio così.
Prima di tutto, se è ancora un medium, qualcuno deve avere libertà responsabilità diretta di forma e contenuti, e dare vita alla cosiddetta linea editoriale. Ed è fin troppo palese che in Rai (ma anche in Mediaset) questa libertà sia relativa: la televisione è oggi un mezzo eterodiretto, in cui l’editore non è mai completamente libero. E non tanto e non solo per la pressione telefonica del potere, come avveniva anche in passato, quando l’iperlottizzazione era una prassi egualmente deprecabile – anche se, va detto, più discreta. Quanto per la castrazione intellettuale a cui volontariamente si sottopongono editori, direttori di testata, direttori artistici e così via. E dico castrazione perché a volte non è nemmeno censura o autocensura preventiva: chi ha la responsabilità dei palinsesti e dei contenuti, dal più alto livello dirigenziale all’autore in stage non pagato, è immerso come noi nella morchia generalizzata. Che se ne renda conto o meno. E se il clima aziendale peggiora, si salvi quel che si può. Si innesca, insomma, un circolo vizioso per cui chi non è in grado o non vuole ribellarsi alla monnezza contribuisce alla crescita della monnezza, che viene venduta per bellezza.
Col risultato che anche il pubblico più avvertito trova un’offerta poco diversificata - e di qualità ad altezza gnocca.

(segue)

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