sabato 2 febbraio 2013

Questo, più o meno, quel che penso del chiedere aiuto

Per esempio possiamo cominciare con il dire che il blog dovrebbe servire anche a questo, Filo, che su Suevele chiedi perchè non chiediamo aiuto, cosa ci ferma, cosa si oppone. Tocchi (bene) un nervo scoperto, e in parte ti ha risposto Dria.
La prima cosa che viene da dire è che per chiedere aiuto dobbiamo avere di fianco qualcuno che la mano ce la tende, o prevarrà sempre la voglia di tenersi tutto dentro le mura, anche quando abbiamo la tentazione di metterci due dita nel cuore; dobbiamo riuscire a lasciarci indietro il dogma sociale family business are nobody's business, il che significa tenersi pronti a fottersene del chiacchericcio da paese, cosa facile, e dal fraintendimento, cosa molto più difficile.
La paura di non essere capiti, compresi, di non essere spiegabili e spiegati, secondo me è uno dei peggiori mali della nostra generazione, quella che non ha - a differenza quella di oggi - l'ossessione per il gruppo e la chiusura ermetica al mondo e al futuro che non c'è, e che invece ha - a differenza da quella dei nostri padri - l'urgenza dell'introspezione e della ricerca di senso.
Siamo molto meno disperati di quanto sono i ventenni di oggi, ma condividiamo con loro la stessa formazione: è la compagnia, la cumpa, il gruppo storico, il circolo delle amicizie che ci ha svezzato. Ci hanno educato i nostri padri, ma a imparare a stare al mondo abbiamo dovuto chiedere ad altri.
Ecco perché ora, adulti e padri, facciamo fatica a immaginarci soli in un contesto che chiede a tutti di essere soli: il culto della privacy, del professionismo dei soldatini, del controllo strenuo delle emozioni di contro al disagio strenuo sbandierato e banalizzato, le relazioni che si polverizzano e noi che - cresciuti in un mondo in cui non morivano mai - non sappiamo darne una spiegazione. Chi soffre è uno sfigo, un peso, chi accusa un problema e lo racconta è spesso, è uno sbatti stargli dietro, chi è sincero è una palla, la verità una noia.
Essantodio, certo, faccio così fatica da solo che l'idea di aiutare mi viene più facile lasciarlo alla Caritas, al Comune, alle milleuna associazioni. Facciamo più fatica a trovare terreni comuni perché di terreni comuni ce ne sono pochini. Di un linguaggio comune: come si fa a capirsi se traduci pagare le tasse alternativamente e spesso nella stessa frase come vessazione feudale o dovere imprescindibile, se andare in depressione non è più ammalarsi ma un semplice status da annunciare come si aggiorna lo stato di facebook. Se onesto significa sempliciotto o senza fronzoli, se religioso equivale a prete sotto pelle, discutere vale come perdere tempo a tutto danno della produttività mia e degli altri.
La paura di chiedere aiuto è figlia di una nuova povertà del linguaggio, che viene da un analfabetismo affettivo che oggi subiamo anche noi - noi che crediamo di saper parlare chiaro e amoroso - come una leggera cappa grigia, come la nebbia di pianura che a volte c'è e a volte no, a volte ci piace a volte ci fa incazzare, ma c'è ed è piuttosto inutile dire ah, se solo non ci fosse. L'unica cosa in cui può batterci è se la ignoriamo, perché questa nebbia, comunque vada, continuerà a bagnarci la faccia.

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