venerdì 25 gennaio 2008

Diario #3

Questa la parte più difficile da spiegare.

[24/07/2006, parte 3]
Difese
Dove sono le mie difese adesso.
Ho la tensione ancora addosso. Ho ancora la sensazione che se non faccio tutto bene perderò qualcosa. Sbaglierò senza rimedio. Sono stanco. Ma non provato fisicamente. È come se questi giorni mi avessero prosciugato la mente e non fossi più in grado di articolarmi le emozioni. Che hanno un loro linguaggio e adesso non le capisco più. Dovrei lasciarle fluire, ma non voglio mettermi a piangere, a gridare. Non voglio confessare di aver paura del giudizio dei medici, degli amici, dei colleghi. Per aver sbagliato, per non aver sbagliato, per quello che è sbagliato.
Accetto l’idea che lo spavento mi abbia reso vulnerabile. Di non avere ancora gli anticorpi, e di essere quindi ancora esposto al virus. Accetto anche che questa ansia sia riconducibile a qualcosa che, in fin dei conti, posso imparare a conoscere, e poi controllare. Accetto di non essere ancora riuscito ad avere lo spazio di ricostituzione, il mio angolo libero, il mio silenzio chiarificatore. In passato mi ha guarito una notte insonne, oggi non posso permettermela. L’angoscia mi separa da me e non posso e non devo permetterle di prendere il sopravvento. L’autoanalisi, sì. Ma ora non ho il tempo di farmela. Di propinarmela come una siringata di qualcosa.
Però ancora non accetto il fatto di non riuscire a mettere a fuoco questa stretta al collo dello stomaco, quasi soffocante, che chiamo nostalgia – perché se fossi lì, con lui e con loro, starei meglio, mi renderei conto di persona, userei il mio metro di valutazione, per quanto imperfetto, traballante, starato possa essere.
Il fatto di aver lasciato a casa oggi una grossa parte di me, e di non vederla e sentirla solo al telefono, come se fosse indifesa agli attacchi dei predatori.
Se tutti e due dovessero combattere, io non sarei là. Ed è tutto ovvio, e niente all’improvviso è ovvio. E questa ingovernabile sensazione e situazione dentro.
Che basti dirla?

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