martedì 8 settembre 2009

L'ubicazione del bene di Giorgio Falco

Ne hanno scritto altri (non molti), ne ha scritto anche Carmilla, arrivo buon ultimo. Fatto sta che l’ennesimo buon consiglio del Libraio (Andrea Grisi, Libreria Il Delfino di Pavia) mi ha colto impreparato. Spiazzato dal suo crudele specchio, dalla sua prosa asettica che si infila come una lama della materia. Tanto che non ho saputo finirlo in pochi giorni, come spesso mi capita, né scriverne finora con ponderatezza.
L’ubicazione del bene di Giorgio Falco è una raccolta di racconti a mosaico, che come telecamere a circuito chiuso puntano ognuno su un’angolazione diversa di Cortesforza, frazione di Vigevano alle porte di Milano, spazio cintato di una Lomellina anonima, eletta a rifugio residenziale per gente che fa tutto altrove. Lavora altrove, ama altrove. Avrebbe potuto essere qualcuno, altrove.
Scrivo attentamente altrove perché Cortesforza è un non-luogo fisico e materiale, prima che un non-luogo dell’anima: ha vie, citofoni, cancelli, allarmi. Ha strade, case, giardini. Come ogni periferia, ha il problema di essere immersa in un paesaggio del tutto disumanizzato, fatto di capannoni e centri commerciali. Dove ci si sposta in auto per arrivare non prima o più comodi, ma per arrivare e basta.
E come tutte le periferie, questo prototipo (archetipo, Falco? È di questo che si tratta? - ndZ) di abitato satellite è dominato dalle cose, e non dalle persone. Più precisamente, qui è la casa, che domina le persone. La metratura, l’agenzia immobiliare, il mutuo, il lavoro che serve per pagarla. Il cancello, il prato, le mattonelle, le luci. La casa, sogno realizzato, progetto di felicità, simbolo di benessere e di status, rifugio dalla folle competitività del lavoro-merce e dell’uomo-risorsa, qui diventa un mostro che divora un’intera generazione. Una generazione che conosce la presa del cemento meglio dei suoi sentimenti, del prossimo, di se stesso.
Le persone che vivono qui sembra non che abitino, ma che siano abitate da queste case. Come se arrivati qui non sapessero più distinguere se stessi se non immersi nella rappresentazione delle proprie case e strade, delle auto in coda in tangenziale. Uno spazio vuoto che nega spazio al pieno dell’identità, la annichilisce esibendo i muscoli coi suv e gli stradoni, con la marca del concime e l’animale domestico di razza. La riduce a semplice ornamento.
L’identità è qualcosa che non ci possiamo più permettere.
E tuttavia non sono alieni, questi personaggi. Anzi, ci somigliano. Hanno sentimenti e aspirazioni, desideri e codici interiori a cui rispondere. Ciò che incanta e inquieta è proprio questo: ognuna di queste persone è di una normalità così abbacinante che proviamo paura, e ci mettiamo a distanza. Il loro vuoto dei sentimenti, delle aspirazioni, dei desideri e dei codici – un vuoto dilatato dalla poetica dello scrittore, chiaro - ci spaventa perché un germe di quel vuoto è dentro di noi e fa terribilmente male prenderne coscienza.
L’operazione a Falco è perfettamente riuscita. Nel suo linguaggio lineare e geometrico, nei tecnicismi implacabili, nella sua entomologica visione c’è una violenza inaudita. Il suo tono asciutto è quasi crudele perché ci inchioda alla paura di finire così, con attorno la nostra bella roba comprata a prezzo della nostra identità, che ci noleggia, ci affitta, ci compra fino alla morte, per poi ricominciare ad abitare qualcun altro.
L’ubicazione del bene, col suo splendido titolo rivelatore, è un libro da cui tenersi lontani, se ci si riesce, mentre si legge. O da leggere lentamente, da guardare come spettatori assieme all’autore pezzo per pezzo, video per video. Più che altro per non soffrire l’accumulo di crude risposte alla domanda dove stiamo andando?

L’ubicazione del bene, Giorgio Falco, Einaudi 2009

2 commenti:

lucacci ha detto...

grazie ze, ne farò tesoro in questi periodi di aridità emozionale

zesitian ha detto...

oh oui, ma aspetta che arriva un altro consiglio di lettura, alla faccia dell'aridità emozionale.