mercoledì 26 ottobre 2011
La banalità del dolore
Non mi era mai capitato di partecipare, diciamo così, a un lutto collettivo. Non riesco a non pensarci, neanche oggi che ormai la radio e internet sono pieni di cronache da un funerale. Non riesco a non pensarci e non so perché.
La Normanna dice che è perché siamo genitori e viene un po' d'ansia per i bimbi. Per quando cresceranno, chiaro, ma anche per empatia con i genitori.
Mmh.
No, io direi che forse, se pure c'entra il sentirsi padri e madri, c'entrano pure un sacco di cose inconscie sulle moto e sugli incidenti.
C'entra il fatto che fosse simpatico, ne sono sicuro. Con quel testone, l'accento, la spontaneità. Pulito, in gamba, da portarselo a bere una birra o a un concerto di quelli belli. C'entra il fatto che la morte è stata tragica e macabra oltre maniera, di contro a un personaggio così solare.
C'entrano tutte le cose, ma non me lo spiego lo stesso.
Da quando esiste la televisione il lutto collettivo, dalla cronaca nera in prima serata al cadavere planetario di Woityla, è entrato in casa e ci ha letteralmete ammorbato, sporcato e in definitiva spento la sensibilità. Ci commuoviamo, sì, ma poi passa.
Come tutto quello che passa in tv, appunto: poi passa.
E invece questo ragazzo, no, non mi passa. Sarà che sto invecchiando. Sarà che nel mondo sporco, parassita e triste in cui viviamo un po' d'allegria ci voleva, e ti ci attacchi di più. Sarà. Rimane la banalità del dolore, le meravigliose testimonianze della famiglia.
E una testa di ricci che non si sa come facessero a entrare nel casco.
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